Breve storia del simbolo del sindacato Avvocati di Firenze e Toscana.

di Cesare Piazza

Correva l’anno 1292, un tempo per tanti motivi turbinoso (*). Nel generale sconquasso c’era tuttavia qualcuno che sentiva il bisogno di ordine, di regole, di certezza del diritto; e si adoperava per assicurare ai cittadini semplici, operosi, non potenti, non armati, la sicurezza dei loro interessi e la protezione dello Stato.

Fra le altre città, il comune di Firenze resisteva strenuamente nella conservazione delle proprie libertà repubblicane, e si era dato un ordinamento istituzionale cospicuo e destinato a durare: le corporazioni delle Arti, che erano organi di tutela delle categorie di lavoratori e di mercanti, ma che – attraverso i loro statuti interni e le loro correlazioni trasversali – erano diventate snodi essenziali di un governo democratico “di popolo” e quindi articolazioni istituzionali politiche quali forze sociali responsabili. Il punto massimo di coordinamento di tali istituzioni si ebbe nel 1292 con gli Ordinamenti di Giustizia, compendio normativo promosso e curato da Giano della Bella  (**).

Fra le Arti Maggiori, la principale e la più prestigiosa era quella dei Giudici e Notai, assertori e cultori del diritto, custodi delle regole, osteggiatori di ogni violenza e prevaricazione.

E gli avvocati? Ebbene a quell’epoca gli avvocati non esistevano come tali, esistevano come giureconsulti – appunto quali erano giudici o notai – ai quali occorrendo veniva conferito l’incarico difensivo (***).

Ogni Arte aveva statuto, disciplina, patrimonio e perfino santo protettore proprio (a proteggere i giureconsulti doveva provvedere San Luca Evangelista, che però era stato un medico… Mah!….) ma soprattutto aveva gonfalone ed insegna propri; e l’Arte dei giudici e notai aveva l’insegna più prestigiosa e più nobile: stella d’oro a otto punte uguali in campo azzurro, incorniciata in uno scudo a mandorla bordato d’oro.

Secondo i dettami dell’araldica, la stella è un astro di riferimento che indica il cammino, l’azzurro è il campo della schiettezza, della serenità, dell’onestà; e l’oro rappresenta i beni più preziosi e più nobili. Era dunque un’insegna davvero prestigiosa. Ancora oggi, sul cornicione del palazzo dove l’Arte aveva sede, si può ammirare un nastro di pietra dove si susseguono gli scudi con la stella; ed è certo che dinanzi a quell’insegna i cittadini si scoprivano il capo, con riverenza.

Le Arti sopravvissero – ancorché cambiassero tempi, istituzioni, regimi – per parecchi secoli, e quella dei Giudici e Notai in particolare addirittura fino al 1777, sotto il granducato di Pietro Leopoldo arciduca d’Austria “quando delle istituzioni popolari fu spento anche il nome” (così rammemora una lapide posta sul palazzo già sede dell’Arte).

Ma veniamo ai tempi nostri. Nel 1874 furono istituiti per tutta l’Italia unita gli Ordini degli avvocati, e quella fu l’occasione – in Toscana – perché qualcuno richiamasse alla memoria l’antica Arte e la sua insegna. Non risulta quando esattamente fosse deciso di ripristinare lo stemma come insegna degli Ordini: ma è un fatto che ancora oggi gli ordini di Firenze, di Pistoia, di Arezzo, di Massa e – con una variante – di Prato si fregiano ufficialmente dell’antico simbolo dello scudo che contiene la stella d’oro a otto punte.

In tempi molto più recenti, intorno all’anno 1975, la Federazione dei Sindacati degli avvocati e procuratori italiani – Fe.S.A.P.I. nata nel 1964 – suggeriva e favoriva la nascita di raggruppamenti regionali dei singoli sindacati locali; e quando fu costituita la Federazione dei Sindacati Forensi Toscani qualcuno – memore del passato – propose di adottare come logo l’antica insegna, adattandola a una versione di tipo dinamico sindacale. Ne nacque uno scudo quadrato, contenente una stella a otto punte lunghe e affilate, ma con la punta inferiore molto più lunga delle altre, a mo’ di pungiglione graffiante.

Il logo piacque moltissimo addirittura in sede nazionale, tanto è vero che alcuni anni dopo, quando tutte le federazioni si eliminarono, confluendo (salvo una frazione andata a costituire l’Assoavvocati) nell’unitario Sindacato Nazionale degli Avvocati (Bologna, 1988), il logo della stella d’oro in campo azzurro fu volentieri adottato dal Sindacato Nazionale Federavocati, oltreché – ovviamente – dal Sindacato degli Avvocati di Firenze e Toscana e da altri Sindacati locali.

Come si sa, a Chianciano nel 1997 il Sindacato Nazionale e l’Assoavvocati decisero di confluire insieme nell’Associazione Nazionale Forense, conferendo ciascuna compagine nella nuova associazione l’eredità storica, culturale e politica del sindacalismo forense, e quindi anche delle insegne distintive. E così la stella d’oro con l’ottava punta a pungiglione, in campo azzurro delimitato o meno da uno scudo (spesso è un campo quadrato) è divenuto il nobile e ormai universalmente riconosciuto e rispettato simbolo che contraddistingue l’Associazione Nazionale Forense. E, attraverso l’A.N.F., fa riflettere su tutti gli avvocati italiani la luce di quell’antica prestigiosa insegna medievale, faro della dignità e superiorità del diritto in quel (solo quello? …..) mondo oscuro di violenza e di sopraffazione.


PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE

(*) Tempi davvero terribili, quelli, di instabilità, di incertezze, di esasperazioni. Sovrani feroci, principi ribelli, tiranni spregiudicati, pontefici indegni, popolazioni angariate, riottose, travolte da scorrerie, carestie e pestilenze. Ma di che si sta parlando?

Del pieno medioevo, si sta parlando; di quegli anni fra la fine del ‘200 e l’inizio del ‘300, quando in Italia vivevano, sì, anche Cimabue, Giotto, Dante, Petrarca e Boccaccio, ma l’intero paese era sconvolto da guerre, assedi, scorrerie, rivolte, bande armate, devastazioni e saccheggi.

C’erano Genova e Pisa, potenze marinare, che combattevano strenuamente fra loro (battaglia della Meloria – 1283), c’era un regno svevo degli Hohenstaufen a Napoli, e un regno teocratico, dai confini sempre incerti e contestati, dominato dalla Chiesa di Roma, poi c’era un mai incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, Rodolfo d’Absburgo, che voleva dominare sulla Padania, veniva e andava e frattanto aizzava le fazioni ghibelline di tutte le città per prevalere sui papi i quali a loro volta aizzavano tutte le fazioni guelfe per non dargliela vinta; e diciamo “papi” perché la storia ci dice che in venticinque anni fra Clemente IV (1269) e Bonifacio VIII (1294) ben nove pontefici si succedettero sulla cattedra di San Pietro.

E c’era un invadente personaggio francese, Carlo d’Angiò, (fratello del re di Francia Luigi IX) che con le buone o (soprattutto) con le cattive, teneva i papi come ostaggi ottenendo o imponendo titoli, potestà, rendite e, alla fine, interi regni; era arrivato ad essere vicario di Toscana, senatore di Roma, pretendente alla successione nell’impero latino di oriente, e soprattutto, dopo la sopraffazione degli svevi e la conquista del loro regno, re di Sicilia (che a quel tempo significava regno sull’isola di Trinacria “al di qua del faro” e regno su tutto il meridione d’Italia “al di là del faro” da Teramo a Otranto e da Capua a Reggio Calabria). Regno poi sempre insidiato, guarda caso, proprio dagli spagnoli Aragonesi, che, già padroni della Sardegna e del Mediterraneo, dopo i fatti di Palermo che son passati alla storia come “vespri siciliani”, presentatisi in forze nel golfo di Napoli (1284) con la flotta comandata dal fuoruscito Ruggero di Lauria, sbaragliarono la flotta angioina e addirittura presero prigioniero Carlo di Salerno, figlio del re Carlo d’Angiò.

E, tanto per parlare di flotte, nemmeno fu cosa da poco – quindicimila cadaveri – lo scontro navale di Curzola (1298) fra le galee veneziane e quelle genovesi, anche se di questo esecrando fratricidio la storia patria non parla estesamente.

Si è detto dei “vespri siciliani”: ecco, come si può immaginare, in simile contesto i territori – salvo dove resistesse un Comune orgoglioso – erano lasciati a sé stessi: in particolare, nel regno di Sicilia le finanze erano dissestate, l’amministrazione in disordine, le strade e i ponti in rovina, le terre abbandonate, il contado impoverito. E poiché Carlo d’Angiò aveva installato la sua corte a Napoli, la vecchia metropoli palermitana era decaduta a paese di provincia: il malcontento era grande e, per prevenire qualche insurrezione, la polizia angioina la teneva in una specie di perpetuo stato d’assedio, con coprifuoco, divieto di assembramenti e perquisizioni dei passanti. E così, proprio a causa di una perquisizione da parte di un gendarme addosso a una donna che transitava al braccio del marito, quest’ultimo non esitò a trafiggere l’insolente e gridare alla rivolta (31 marzo 1282). Rivolta che, in un batter d’occhio si estese a tutta la città e ai dintorni, e che costrinse tutti i francesi a cercare scampo e a fuggire.

I palermitani fecero appello al papa Martino IV perché garantisse la loro autonomia, ma il papa era francese e non esitò nemmeno un momento a dare via libera a Carlo d’Angiò perché desse luogo alla repressione a alla riconquista (assedio di Messina). Cosicché ai rivoltosi non rimase altro che rivolgersi a Pietro il Grande, re di Aragona, che non aspettava altro. E i siciliani caddero in tal modo dalla padella francese nella brace spagnola.

Quanto al resto della penisola italiana, era tutta una zuffa feroce e continua fra castelli e borghi, città, comuni, paesi, signorotti, feudatari, ora guelfi, ora ghibellini, sui quali piovevano a dirotto, da parte del papa di turno, maledizioni, anatemi e interdetti, dei quali peraltro sembra che ai contendenti importasse poi veramente il giusto. E non parliamo delle scellerate, indomabili e sanguinose contese che dividevano, all’interno di Roma, le casate dei Colonna, dei Caetani e degli Orsini.

Insomma, un diavolìo e un pandemonio.

(**) Bizzarro e discusso personaggio, notabile e maggiorente del governo comunale, sugli altari nel 1290 e nella polvere nel 1295 quando, sospettato di sovversione e di aizzamento del popolo minuto, fu cacciato dalla città e mandato a morire in esilio.

(***) Secondo il cronista Giovanni Villani, “il collegio de’ giudici era d’ottanta e i notai di seicento”: non c’è dubbio che la quantità stessa dei giureconsulti testimoniava dell’importanza e dell’incidenza della loro funzione. E lo storico Goro Dati, forse un po’ esagerando, scriveva nel XV° secolo: “La prima è l’Arte de’ Giudici e Notai, e questa ha un proconsolo sopra gli altri consoli, e reggesi con grande autorità, e puossi dire essere il ceppo della ragione di tutta la notaria che si esercita in tutta la cristianità…..”.